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La nostra consulenza legale va dalle normative che regolano la Legge sulla privacy, all’infortunio sul lavoro fino all’Inail.
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La pubblicazione di immagini, avvenuta senza il consenso della diretta interessata, qualora abbiano ad oggetto un dato sensibile, quale la salute, è illegittima.
In particolare, ove un chirurgo estetico diffonda brochure finalizzate a pubblicizzare il proprio Studio che ritraggono immagini di una paziente prima e dopo l’intervento, tale condotta è illegittima sotto plurimi aspetti:
• Violazione del Codice della Privacy
La pubblicazione dei fotogrammi, oltre ad integrare abuso del diritto all’immagine e lesione del diritto alla riservatezza, viola in primo luogo il D.Lgs. 196/2003 (c.d. Codice della Privacy).
In particolare, si dà conoscenza ad un numero indeterminato di persone di un dato sensibile, inerente la salute, che, a norma dell’art. 4, comma I, lett. d), sono definiti quali “i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”, con chiara violazione degli artt. 11 e 23 del citato decreto.
Il trattamento illecito obbliga ex art. 15 D.Lgs. 196/2003 al risarcimento del danno.
• Lesione del diritto all’immagine ex artt. 10 c.c. e 96 e 97 l.a.
Non solo: in tale agire, può ravvisarsi anche violazione dell’art. 10 c.c., che così dispone: “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”.
Tale ultimo articolo deve essere, poi, coordinato con la legge sul diritto d’autore, in particolare artt. 96 e 97, a cui l’art. 10 c.c. rinvia implicitamente.
Più precisamente: l’art. 96, comma I, salvi i casi specifici e tassativi di cui al successivo 97, precisa come “Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell’articolo seguente.”
La diffusione delle fotografie non può nemmeno rientrare nelle ipotesi espressamente previste dall’art. 97 della l. dir. Autore: “Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.
Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata”.
Si consideri, poi, interessante sentenza della Cassazione, la nr. 21172/2006: “L’esposizione o la pubblicazione dell’immagine altrui, a norma dell’art. 10 cod. civ. e degli artt. 96 e 97 della legge 22 aprile 1941, n. 633 sul diritto d’autore, è abusiva non soltanto quando avvenga senza il consenso della persona o senza il concorso delle altre circostanze espressamente previste dalla legge come idonee a escludere la tutela del diritto alla riservatezza – quali la notorietà del soggetto ripreso, l’ufficio pubblico dallo stesso ricoperto, la necessità di perseguire finalità di giustizia o di polizia, oppure scopi scientifici, didattici o culturali, o il collegamento della riproduzione a fatti, avvenimenti, cerimonie d’interesse pubblico o svoltisi in pubblico – ma anche quando, pur ricorrendo quel consenso o quelle circostanze, l’esposizione o la pubblicazione sia tale da arrecare pregiudizio all’onore, alla reputazione o al decoro della persona medesima.(Fattispecie in tema di pubblicazione, su una rivista, di una fotografia del figlio minorenne della ricorrente, ripreso su di una spiaggia in compagnia del padre e di una nota attrice televisiva, che indossava un “topless”; la Corte, enunciando il principio di cui in massima, ha confermato la sentenza di merito, la quale aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno avanzata dalla madre, sia avendo accertato che il servizio fotografico non risultava attuato con modalità tali da ledere la dignità del minore o della madre stessa e che nelle immagini non era ravvisabile alcun intento lascivo, giacché tra l’attrice televisiva, il cui costume non presentava particolarità suscettibili di riprovazione o di giudizio d’immoralità, e il marito dell’attrice, ritratti nelle istantanee pubblicate, era in corso una lotta scherzosa, compiuta alla luce del sole e in mezzo alla gente, e quindi priva di ogni connotazione diversa da quella meramente ludica; sia avendo ravvisato nella esposizione del figlio, da parte del padre esercente la potestà, in luogo pubblico in compagnia dell’attrice, come tale notoriamente soggetta all’interesse dei fotografi, un implicito consenso alla ripresa fotografica). (Rigetta, App. Milano, 4 Dicembre 2001). Tale ultima sentenza, che deve necessariamente leggersi in collegamento con l’art. 97 della L. 633/1941, ove stabilisce la non necessarietà del consenso se trattasi di persona notoria, ha escluso l’abuso del diritto all’immagine solo perché trattasi di persona famosa e perché in presenza di comportamenti riferiti alla normalità della vita, mentre a maggior ragione per soggetto non popolare e per suoi comportamenti non rientranti nella normalità della vita, il consenso sarebbe stato necessario, a norma dell’art. 97, la violazione è pertanto evidente, con ulteriore pregiudizio all’onore, reputazione e decoro.
Pregiudizio che non in ipotesi siffatta non potrà negarsi.
• Sulla lesione del diritto alla riservatezza
Non va poi dimenticato come la giurisprudenza prevalente ha riconosciuto l’esigenza di tutelare l’intimità della sfera privata della vita dell’individuo, così elaborando il c.d. diritto alla riservatezza.
Si veda, in tal senso, Cass. 4366/2003: “Il diritto alla riservatezza – il cui fondamento normativo va ravvisato, al di là dalla sussistenza di altre e più specifiche previsioni, nell’art. 2 della Carta fondamentale – consiste nella tutela di situazioni e vicende di natura personale e familiare dalla conoscenza e curiosità pubblica, situazioni e vicende che soltanto il relativo protagonista può decidere di pubblicizzare ovvero di difendere da ogni ingerenza – sia pur realizzata con mezzi leciti e non implicante danno all’onore o alla reputazione o al decoro – che non trovi giustificazione nell’interesse pubblico alla divulgazione; la lesione di tale diritto può aversi, sia con riguardo a persona nota, sia ignota, benché, quanto alla prima, può più facilmente operare il meccanismo di cui all’art. 97 della legge d’autore, con la conseguenza che una pubblicazione (nella specie, di fotografie) che avvenga senza il consenso dell’interessato ben può accompagnarsi ad un’esigenza pubblica di informazione, del pari costituzionalmente tutelata. La lesione del suddetto diritto è configurabile come illecito ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., al quale, peraltro, non consegue un’automatica risarcibilità, dovendo il pregiudizio (morale e/o patrimoniale) essere provato secondo le regole ordinarie, quale ne sia l’entità e quale sia la difficoltà di provare tale entità.”
Ed ancora, Cass. 5658/1998: “Il diritto alla riservatezza – che, indipendentemente dalla sussistenza nell’ordinamento di altre e più specifiche previsioni, trova il proprio fondamento normativo nell’art. 2 Cost. e la cui lesione, pertanto, ove generatrice di danni, dà luogo a responsabilità ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. – consiste nella tutela di situazioni e vicende strettamente personali e familiari, ancorché verificatesi fuori del domicilio domestico, da ingerenze che, sia pur compiute con mezzi leciti e senza arrecare danno all’onore, al decoro o alla reputazione, non siano tuttavia giustificate da un interesse pubblico preminente; esso, pertanto, non si identifica col diritto alla reputazione, atteso che, pur rappresentando entrambi i diritti singoli aspetti della rilevanza che la persona umana ha acquistato nel sistema della Costituzione, e pur potendo in concreto una singola azione essere contemporaneamente lesiva di entrambi, non vi è coincidenza tra essi, e che il diritto alla riservatezza, pur non assistito dalla più pregnante tutela penale prevista per il diritto alla reputazione, presenta un’estensione maggiore, ben potendosi configurare ipotesi di fatti della vita intima che, pur non influendo sulla reputazione, devono tuttavia restare riservati, con la conseguenza che può aversi lesione del diritto alla riservatezza anche quando sia stata esclusa una lesione del diritto alla reputazione”.
Un comportamento quale quello preso in esame va a violare sfera privata e riservata, così con ingerenza da parte di tutti coloro che potrebbero visionare le brochure.
Un fatto privato e riservato viene infatti reso noto e oggetto di conoscenza, proprio per la pubblicazione dei fotogrammi.
Si consideri, peraltro, come la sentenza poc’anzi citata, nr. 4366/2003, ha altresì precisato in parte motiva come: “…. il diritto alla riservatezza consiste nella tutela di situazioni e di vicende personali e familiari dalla curiosità e dalla conoscenza pubblica. Si tratta di situazioni che solo quegli che le ha vissute può decidere di pubblicizzare e che ha diritto di difendere da ogni ingerenza, sia pure condotta con mezzi leciti e non implicante danno all’onore o alla reputazione o al decoro, che non trovi giustificazione nell’interesse pubblico alla divulgazione. La fonte primaria di tale diritto, ancorché esso sia previsto in altre e più specifiche norme quali quelle della legge sul diritto di autore invocata dalla ricorrente, è l’art. 2 della Costituzione, e la sua violazione dà luogo a fatto illecito i cui effetti pregiudizievoli sono risarcibili. (Cass. n 5658 del 1998).
La lesione di tale diritto dunque può aversi sia con riguardo alla persona nota e sia con riguardo alla persona non nota, benché, come pure la giurisprudenza della Corte Suprema ha chiarito, quanto alla persona nota è più facile che operi la previsione dell’art. 97 l.a. ovvero che la pubblicazione della fotografia (ritratto, nella formula della legge) possa avvenire anche senza il consenso dell’interessato ovvero legittimamente, giacché si accompagna ad una esigenza pubblica di informazione, del pari costituzionalmente tutelata”, così riconoscendo una tutela anche ove l’intrusione nella sfera privata sia stata eseguita lecitamente, ma non giustificata da esigenze di pubblica informazione.
• Sulla lesione del diritto alla reputazione
Trattasi di diritto della personalità, il cui fondamento normativo è costituito dall’art. 2 Cost.
La reputazione, come è a tutti noto, consiste nella considerazione e stima di cui gode un soggetto tra i consociati, che con tale diffusione potrebbero essere definitivamente compromesse.
Inadempimento e strumenti di tutela
Il contratto preliminare, di cui all’art. 1351 c.c., è un contratto che obbliga le parti alla successiva stipulazione di un definitivo, di cui presenta già tutti gli elementi essenziali (oggetto, causa, accordo e forma); è pertanto un contratto ad efficacia obbligatoria, che deve avere la medesima forma del definitivo che le parti si obbligano poi a stipulare.
Di utilizzo frequente nella pratica, è il preliminare di compravendita di immobile, che deve avere la forma scritta ad substantiam; laddove, poi, le parti intendano trascrivere il preliminare la forma richiesta sarà quella dell’atto pubblico o della scrittura privata autentica.
La trascrizione di tale tipologia di contratto produce un effetto c.d. “prenotativo”: ciò significa che, trascritto il preliminare, alla trascrizione del definitivo, gli effetti di quest’ultimo si produrranno sin dalla data della trascrizione del primo, che sarà quindi opponibile alle successive e posteriori trascrizioni. Tale effetto non è però infinito: il definitivo (o la domanda giudiziale ex art. 2932 c.c.) deve infatti essere trascritto entro un anno dal termine stabilito dalle parti per la trascrizione di quest’ultimo ed, in ogni caso, entro 3 anni dalla trascrizione del preliminare.
Esaminiamo ora gli strumenti di tutela previsti dal codice in caso di inadempimento del preliminare.
Strumento principe è la domanda ex art. 2932 c.c., volta ad ottenere una sentenza che faccia luogo al contratto definitivo non concluso; tale rimedio, infatti, consente di agire giudizialmente per ottenere una sentenza costitutiva in luogo del definitivo e, pertanto, producente i medesimi effetti di quest’ultimo. Nel caso di preliminare di compravendita di immobile, la sentenza trasferirà la proprietà in capo al promissario acquirente.
Il comma II dell’art. 2932 c.c., riferito alle sole ipotesi di preliminari aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata precisa tuttavia che l’accoglimento della predetta domanda è subordinato all’adempimento della propria prestazione o all’offerta della stessa nei modi di legge da parte di colui che agisce ex art. 2932 c.c., sempre che la prestazione sia ancora esigibile o il titolo non lo escluda.
Ciò significa che l’attore ex art. 2932 c.c. o adempie la prestazione cui è tenuto o ne fa offerta nei modi di legge.
È intervenuta la Corte di Cassazione sul punto che ha distinto due ipotesi (così Cass. 26226/2007):
1) Se le parti abbiano previsto il pagamento del prezzo, o del residuo prezzo, contestualmente alla stipula del definitivo, è sufficiente la semplice offerta non formale di esecuzione della prestazione, in qualsiasi forma idonea a manifestare volontà di adempimento; in particolare, così Cass. 16822/2003, costituisce offerta idonea l’invito del promissario acquirente al promissario alienante a presentarsi dinnanzi al Notaio per la stipula, l’offerta della prestazione formulata in giudizio dalla parte prima della pronuncia ovvero, così Cass. 5151/2003, la manifestazione di volontà di corrispondere il residuo prezzo di vendita, rappresentata in atto di citazione.
2) Laddove invece il pagamento del prezzo o del residuo prezzo deve precedere la stipula del definitivo, la parte è obbligata, alla scadenza del termine, ad eseguire il versamento al domicilio del creditore o a farne offerta nei modi previsti da legge.
Rimane salvo poi il diritto, secondo la regola generale di cui all’art. 1218 c.c., di domandare il risarcimento danni, danni tutti che il creditore dovrà provare.
Oltre al rimedio ex art. 2932 c.c., il contraente potrà altresì agire ex art. 1453 c.c., regola generale in tema di contratti, finalizzata ad ottenere la risoluzione del preliminare, subordinata però alla “non scarsa rilevanza dell’inadempimento”, valutazione questa rimessa al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità. Tale azione, che si prescrivere nel termine di dieci anni, dalla stipula del contratto, consente peraltro di domandare il risarcimento danni subiti, causa l’inadempimento, danni che il creditore dovrà provare.
Il creditore potrà, poi, inviare diffida ad adempiere, ex art. 1456 c.c., con cui intimare l’adempimento entro un certo termine, in genere non inferiore a giorni 15, decorso il quale il contratto sarà risolto se adempimento non vi sarà. Anche in tale ipotesi, sarà poi possibile, secondo la regola generale di cui all’art. 1218 c..c, agire per ottenere il risarcimento dei danni subiti.
Laddove, però, l’incarico fosse conferito ad un legale, sarebbe necessario conferire a quest’ultimo procura scritta, come ha chiarito la Cassazione con sentenza a SS.UU. del 2010, posta la natura negoziale della diffida ad adempiere.
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[su_spoiler title=”Differenziale INAIL e Rivalsa INAIL “]
Nell’ipotesi di infortunio sul lavoro, l’Ente Previdenziale è tenuto ad indennizzare il lavoratore, dietro pagamento del premio da parte del datore di lavoro. Ed anzi, proprio il pagamento dei premi ha la funzione di tenere indenne il datore di lavoro da una eventuale responsabilità, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni.
Tuttavia, di fronte ad una menomazione dell’integrità psicofisica, in sé considerata, a prescindere dalle conseguenze che il danno biologico possa avere sul reddito, l’INAIL nulla eroga al lavoratore a titolo di indennizzo, ove la percentuale di invalidità sia inferiore al 6%.
Ed infatti:
– per le menomazioni inferiori al 6%, l’INAIL nulla eroga, pertanto l’intero risarcimento sarà a carico del datore di lavoro, che risponde ex art. 2087 c.c., secondo le comuni regole di responsabilità civile, indipendentemente dal fatto che la lesione sia derivata da reato, essendo sufficiente una colpa civile;
– per le menomazioni comprese fra il 6 ed il 15%, l’INAIL eroga un indennizzo in capitale, sulla base della Tabella delle Menomazioni, che attribuisce ad ogni lesione una percentuale di invalidità; la Tabella di indennizzo del danno biologico indica poi la misura del ristoro economico del danno biologico;
– per le menomazioni pari o superiori al 16%, l’INAIl eroga una rendita, composta di due quote, l’una per l’indennizzo del danno biologico, l’altra di natura patrimoniale. Tale ultima quota viene calcolata in base alla Tabella dei Coefficienti, che indica la percentuale di retribuzione da prendere in considerazione per effettuare tale calcolo.
È evidente dunque come l’indennizzo INAIL copra solo e soltanto il danno biologico (in ogni caso a partire dalle invalidità pari al 6%), inteso come menomazione dell’integrità psicofisica, nulla invece viene erogato per le altre tipologie di pregiudizi.
Non solo: la Tabella di indennizzo del danno biologico prevede importi inferiori per la stessa percentuale di invalidità rispetto alle tabelle civilistiche.
Ed infine, va osservato come il danno biologico risarcito dall’indennizzo INAIL sia c.d. “statico”, per nulla invece considerando le componenti sia in termini di sofferenza soggettiva sia di tipo esistenziale, che invece con l’appesantimento del punto, sono già considerate nelle Tabelle Milanesi per la liquidazione del danno non patrimoniale. Tali ultime Tabelle, infine, consentono un aumento, la c.d. personalizzazione, laddove il caso presenti peculiarità che dovranno essere allegate e provate, sia intermini di dolore sia in termini esistenziali (tipico esempio è quello del dito del pianista).
Nulla di tutto ciò, l’indennizzo INAIL, che considera solo e soltanto la menomazione della salute e, per tale lesione, corrisponde una somma di denaro, non dà alcun rilievo alle incidenze sugli aspetti dinamico-relazionali o eventuali sofferenze.
Dunque esiste un danno, c.d. differenziale, che l’indennizzo INAIL non copre, per il quale il lavoratore potrà agire nei confronti del responsabile civile (datore di lavoro o terzo come nel caso di infortunio in itinere).
Tale danno differenziale potrà essere:
– Quantitativo, costituito dalla differenza tra quanto liquidato dall’INAIL e quanto invece in sede civile, in termini di danno biologico e patrimoniale da perdita della capacità lavorativa specifica per le menomazioni pari o superiori al 16%;
– Qualitativo, costituito dalle voci che l’INAIL non risarcisce, ed in particolare:
1) danno morale;
2) danno biologico con invalidità sino al 5%;
3) danno per invalidità temporanea;
4) pregiudizi di tipo esistenziale (che in ambito civilistico sono costituiti dalla c.d. personalizzazione);
5) danno tanatologico (biologico e morale iure hereditario);
6) danno biologico iure proprio in caso di morte;
7) danno da perdita della capacità lavorativa generica;
8) danno da perdita della capacità lavorativa specifica.
Per tutte queste voci, il lavoratore, come anzi detto, potrà agire verso il datore o il terzo responsabile, con la seguente precisazione:
– per quanto attiene alle voci di danno non comprese nell’indennizzo INAIL, il lavoratore infortunato agirà secondo le comuni regole di responsabilità civile, in particolare ex art. 2087 c.c. verso il datore o comunque verso il terzo responsabile del danno;
– per quanto concerne il differenziale quantitativo, la Giurisprudenza non è univoca sul punto, vi è chi ritiene infatti che il lavoratore può agire ex art. 2087 c.c., senza necessità di una colpa penale, e chi invece sostiene come la lesione debba derivare da un fatto astrattamente configurabile come reato. Nei confronti del terzo responsabile, non vi sono limitazioni.
Rispetto a quanto erogato, l’INAIL ha poi diritto di rivalsa:
– nei confronti del datore, a norma dell’art. 11 D.P.R. 1124/65;
– nei confronti del terzo responsabile a norma degli artt. 1916 c.c. e 142 Cod. Ass., nell’ipotesi di sinistro stradale costituente infortunio in itinere.
Tale diritto di rivalsa, nel caso di responsabilità civile del terzo, ha dato luogo ad ampio dibattito: quali sono i limiti, soprattutto alla luce dell’art. 142 Cod. Ass., che esclude “i danni non altrimenti risarcibili”?
Secondo parte della dottrina (Avv. Calogero, Dott. Damiano Spera e Dott. Rossetti) e parte della giurisprudenza, al lavoratore infortunato, dunque, spetta il risarcimento solo nella misura differenziale derivante dal raffronto tra l’ammontare complessivo del risarcimento e quello delle indennità liquidate dall’Inail, in dipendenza dell’infortunio, al fine di evitare una ingiustificata locupletazione.
Tale danno differenziale dovrà quindi determinarsi, sottraendo dall’importo del danno complessivo, liquidato dal Giudice secondo i criteri e principi civilistici, quello delle prestazioni erogate dall’Ente Assicuratore.
Peraltro, secondo la giurisprudenza costante, l’Inail, in sede di surroga, potrà pretendere non solo i ratei già versati, ma anche il valore capitalizzato delle prestazioni future. Si veda, fra tante, Cass. 16563/2002, che ha così statuito: “Qualora un istituto di assicurazione sociale agisca, per il rimborso di rendita erogata ad un infortunato per incidente stradale, nei confronti del terzo responsabile dell’infortunio medesimo, esercitando il diritto di surrogazione previsto dall’art. 28 della legge n. 990 del 1969, devono ritenersi applicabili, al fine della liquidazione di quanto dovuto da detto terzo, le disposizioni di cui agli artt. 10 e 11 D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (le quali, anche se dettate con riferimento alla diversa ipotesi del regresso contro il datore di lavoro, configurano espressione di un principio generale). Da ciò consegue che vanno riconosciuti in favore dell’istituto, non soltanto un importo di denaro pari al valore capitale, ma anche l’ammontare dei ratei di rendita in precedenza versati”. Nel nostro caso, pertanto, l’Inail avrà diritto di surroga per l’intero ammontare delle prestazioni: danno biologico, pari al 16%, per € 25.943,15 e danno patrimoniale per € 25.157,17, entrambi erogati in rendita.
È evidente, dunque, che i rapporti di dare/avere sono dati da un semplice ragionamento matematico, garantendo all’INAIL di recuperare l’intero versato e evitando che dall’infortunio il lavoratore possa “lucrum captare”, comunque garantendogli il ristoro di tutto il danno sofferto.
Ogni opinione contraria porterebbe a disattendere il “principio indennitario”.
Si veda, in tal senso, Cass. 10035/2004: “5. Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti, lamentano la violazione dell’art. 10 d.p.r. n. 1124/1965, nonché vizio della motivazione (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.).
Secondo i ricorrenti, essendo nella fattispecie intervenuta sentenza penale di condanna al risarcimento del danno, la responsabilità civile del datore di lavoro opera secondo le norme del diritto comune, con la conseguenza che questi va condannato al risarcimento dell’intero danno patrimoniale e non solo nella parte eccedente quanto corrisposto dall’Inail.
6. Ritiene questa Corte che il motivo è infondato e che lo stesso va rigettato.
Infatti la norma di cui all’art. 10 d.P.R. n. 1124 del 1965, commi 6 e 7 prevede che il risarcimento spettante all’infortunato sul lavoro o ai suoi aventi diritto sia dovuto solo nella misura differenziale derivante dal raffronto tra l’ammontare complessivo del risarcimento e quello delle indennità liquidate dall’Inail in dipendenza dell’infortunio, al fine di evitare una ingiustificata locupletazione in favore degli aventi diritto, i quali, diversamente, percepirebbero, in relazione al medesimo infortunio, sia l’intero danno, sia le indennità.
Tale danno “differenziale” deve essere, quindi, determinato sottraendo dall’importo del danno complessivo (liquidato dal giudice secondo i principi ed i criteri di cui agli art. 1223 e ss., 2056 ss c.c.) quello delle prestazioni liquidate dall’Inail, riconducendolo allo stesso momento cui si riconduce il primo, ossia tenendo conto dei rispettivi valori come attualizzati alla data della decisione. Peraltro, con riguardo al valore capitale delle rendite a carico dell’istituto, deve tenersi conto, anziché del meccanismo generale di adeguamento degli importi dovuti a titolo di danno al potere di acquisto della moneta, del meccanismo legale di rivalutazione triennale delle rendite previsto dall’art. 116, comma 7, cit. d.P.R., salva, per la parte non coperta, la rivalutazione secondo gli indici Istat (Cass. 12/12/1996, n. 11073; cfr. anche Cass. 26/05/2001, n. 7195)”.
È dunque pienamente operante il principio della indivisibilità del danno, al danneggiato dovrà garantirsi il ristoro di tutto il danno, ma non più del danno sofferto.
Qualora, invece, fosse consentita la scomposizione dei titoli indennitari, ovvero uno scorporo delle voci di danno ed il raffronto tra quanto percepito dall’INAIL e quanto spetterebbe secondo i principi civilistici per ogni singolo pregiudizio, si verificherebbe un ingiustificato arricchimento a favore del danneggiate, con la conseguenze che potrebbe appunto “lucrum captare”.
Altra parte della giurisprudenza, sostiene invece come la rivalsa INAIL sarebbe limitata solo e soltanto ai danni che lo stesso indennizza, ovvero biologico e patrimoniale (per le lesioni superiori al 15%).
Così Cassazione 255/2008: “Fermo restando, pertanto, che l’Inail non può aggredire le somme liquidate al danneggiato a titolo di risarcimento dei danni morali e dei danni biologici -in virtù della nota giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenze n. 319 del 1989, n. 356 del 1991 e n. 485 del 1991) – il giudice può accogliere l’azione di rivalsa dell’Inail (si tratti dell’azione diretta e immediata di regresso, di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11, o dell’azione in surroga di cui all’art. 1916 cod. civ.) solo entro i limiti della somma liquidata in sede civile a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali, previo accertamento dell’esistenza e dell’entità di tali danni, in base alle norme del codice civile”.
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